martedì 24 marzo 2009

Bhagavad Gita, Canto V: "Karma-Samnyasa-Yoga" - lo Yoga della Rinuncia nell'Azione


"yogayuko vishuddhatma/ vijitatma jitendriyah
sarvabhutatmabhutatma/ kurvann api na lipyate" (V, 7)
"Colui che è dedito alla devozione, che è puro di mente, che domina la propria natura, che domina i sensi, che identifica il suo sé con quello di tutte le creature, quantunque agisca non è contaminato."


"shaknoti ‘hai ‘va yah sodhum/ prak shariravimokshanat
kamakrodhodbhavam vegam/ sa yuktah sa sukhi narah" (V, 23)

"Colui che anche in questo mondo, prima di essere liberato dal corpo, è capace di sopportare il tumulto che nasce dal desiderio e dall'ira, è un uomo devoto, è un uomo felice."

(la traduzione dei versetti è tratta dalla B.G. edita dalla Società Teosofica Italiana)


Il concetto, già anticipato nei precedenti canti e trattato più diffusamente in questo che ne porta il titolo, è quello della rinuncia. In sostanza mi pare che si tratti di questo: poiché l'azione - intesa anche come desiderio e coinvolgimento nelle cose di questo mondo - è vincolante, è karma, allora la via per la liberazione è la rinuncia all'azione, al desiderio, eccetera. E' possibile, viene però detto da Krishna, anche agire facendo il proprio dovere (quanto meno quello di esseri viventi con le caratteristiche di movimento e relazione) e tuttavia non essere contaminati dal mondo. Ciò può essere ottenuto attraverso la devozione: agire senza desiderare di agire, senza intenzione egoistica, senza mirare al frutto dell'azione, bensì fare ciò che deve essere fatto per dovere devozionale e sacrificio, non per sé stessi ma come tributo all'Essere Universale, a Dio. Ciò equivarrebbe nei risultati alla rinuncia ascetica, e costituirebbe il superamento dell'ego, dell'io personale, che verrebbe mortificato - per così dire - e annullato in favore dell'Io Totale. Tuttavia viene da chiedersi - e non per mera speculazione intellettuale o per indulgere in sofismi, ma proprio con serietà: chi è che decide di agire senza aspirare al frutto dell'azione? Non è forse sempre l'io? Agire con lo scopo di non contaminarsi e di liberarsi dall'io non è pur sempre un desiderare il frutto dell'azione, sia pure il frutto più nobile? Arrivare ad annullare l'io egoico per servire l'Io universale, dunque, potrebbe non essere niente altro che la più alta ambizione dell'io, che si figura la massima autoliberazione e il massimo raggiungimento nella dissoluzione di sé stesso al servizio del Supremo fra i Sovrani o nell'identificazione in Lui. Oppure bisognerebbe asserire che non è l'io a fare l'azione/non-azione, bensì qualcosa nell'uomo che è al di là dell'io, che ne è libero. Se così fosse, però, lo scopo dell'annullamento dell'io sarebbe già raggiunto nel momento in cui quel qualcosa, sopravanzando l'io, fosse in grado di manifestarsi. Intendo dire che fare esercizio della non-azione è comunque un processo dell'io - perché tendente ad uno scopo e sostenuto da un desiderio (sia pure abilmente mascherato da non-scopo e non-desiderio). L'azione realmente originata da una coscienza al di là dell'io, invece, non può per definizione essere esercitata per raggiungere un fine, sia pure spirituale, ma sarebbe tale qual è in sé, senza motivo e senza programmazione alcuna, espressione di un'intima natura. Secondo quanto argomentato è inutile che l'io tenti di annullare l'io, perché lo farebbe sempre a partire da sé stesso e desiderando di raggiungere un risultato, fosse anche il dissolvimento di sé: oltre al ritenersi - per ambizione inconsapevole e inflazione egoica - sempre più santo, illuminato o incontaminato, non potrebbe raggiungere molto altro. Una cosa, però, potrebbe utilmente farla: accettare sé stesso in quanto "io", come una manifestazione della vita, dotata per lo meno di una parziale realtà, consapevole di essere una persona comune, come gli altri, senza doversi necessariamente da loro distanziare, neanche con il giudizio, ma accogliendo la propria umanità e - di conseguenza - quella altrui. L'io può fare molte altre cose alla sua portata: conoscersi nei suoi limiti, indagare le sue vere motivazioni, sforzarsi di agire - per quanto possibile - per il bene comune oltre che per il proprio, se non altro perché il bene di tutti comprende anche il suo (facendo l'io parte dei "tutti"), sforzarsi di ammorbidire l'eccessiva chiusura egoistica perché essa apporta cecità e sofferenza - pur rispettando le proprie necessità, quelle degli altri esseri viventi e dell'ambiente in cui sta. Se poi questo lavorìo, questo macerarsi nell'auto-osservazione e nella trasmutazione dei propri lati negativi, possa portare all'acquietamento e al silenzio dell'io, alla sua resa, e allo spontaneo manifestarsi di un'azione senza scopo egoico, ben venga. Ma tutto ciò, secondo logica, non può essere progettato, desiderato e perseguito dall'io. E chissà che non sia proprio ciò che Krishna vuole indicare nella Gita quando parla di azione devozionale e di offerta al Sé...

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