martedì 24 marzo 2009

Bhagavad Gita, Canto I: "Arjuna Vishada Yoga" - Lo Yoga dell'angoscia di Arjuna


A partire da questo, riporto qui alcuni miei lavori sulla Bhagavad Gita, uno dei più importanti testi dell'induismo - una sorta di Vangelo dell'India. Preciso che non fornirò spiegazioni sulla struttura, il racconto, lo scopo e la storia di questo testo, per le quali cose rimando ai molti interessanti libri, articoli o altro specializzati sull'argomento. Entro, quindi, subito nell'opera senza preliminari di nessun tipo, traendo direttamente da essa spunto e temi di riflessione personale. Ciò anche nello spirito del dialogo e dello scambio con quella grande religione che è l'induismo.

"kulakshaye pranashyanti/ kuladarmah sanatanah/
dharme nashte kulam kritsnam/ adharmo ‘bhibhavaty uta" (I, 40)

"Con la rovina delle famiglie/ vanno disperse le osservanze eterne,/
e col perir di queste in tutta la famiglia/ prevale l'empietà."
(Traduzione edita dalla Società Teosofica Italiana)


Il versetto qui citato esprime il principale motivo dello smarrimento di Arjuna, argomento del primo capitolo della Gita: come si può muovere guerra ad amici e parenti (e in senso lato ad altri esseri umani), anche se usurpatori, distruggendo in tal modo le fondamenta della struttura familiare e sociale? A ben vedere, ogni guerra del passato, e forse anche del presente, è stata e viene combattuta da ognuno dei contendenti pensando di avere Dio dalla propria parte; purtroppo la stessa cosa può valere per qualsivoglia folle o terrorista che compia uno sconsiderato atto di violenza! Per tali motivi direi che il dubbio di Arjuna sembra estremamente giustificato: come possiamo voler imporre le nostre ragioni a tutti i costi, con terribili armi di morte e distruzione? E' per questo che la risposta di Krishna risulta sorprendente - ed è il tema dei successivi capitoli della Gita: Arjuna, dirà il Maestro, deve portare avanti il suo dovere di Kshatriya, cioè deve combattere. Questo è ancora più sconcertante se consideriamo che il Mahatma Gandhi, l'apostolo della non-violenza, traeva proprio dalla Bhagavad Gita sostegno e ispirazione. Di quale guerra allora parliamo? E come si può, in ambito filosofico-religioso, incitare alla battaglia e al massacro? Certo, qualora ci trovassimo personalmente in una situazione di pericolo, oggetto di violenza da parte di malintenzionati, accoglieremmo con estremo sollievo l'intervento di difensori armati - ad esempio delle forze di polizia; quindi credo che sia sempre importante non generalizzare troppo e valutare ogni situazione con la necessaria discriminazione. Tuttavia, pur con le opportune riserve, mi sembra che un incitamento alla guerra sia improponibile come messaggio religioso. Al fine, quindi, di poter prendere in considerazione la Bhagavad Gita come testo sapienziale, devo per forza assumere che la guerra, la battaglia, abbiano in esso il senso metaforico e mitologico di lotta contro i limiti, vizi e le difficoltà - cioè contro il male e le forze oscure, e devo riconoscere al senso letterale soltanto un valore provvisorio e facilmente equivocabile. Detto ciò vorrei però notare la somiglianza di quanto espresso nella Gita con le parole di Gesù: "Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa'' (Mt. 10, 34-36). Queste parole dure ed enigmatiche, così come quelle di Krishna, incitano indubbiamente ad una rivoluzione interiore, ma anche esteriore, nonostante gli aspetti distruttivi di quest'ultima. Probabilmente perché la rivoluzione di cui si parla, anche qui, significa metaforicamente eliminazione delle negatività e sviluppo della coscienza individuale; ma in tale sviluppo non si può prescindere dalla liberazione dalle cristallizzazioni di gruppo, dalle autorità malsane e dalle opinioni collettive, e quindi dall'eliminazione di un eventuale ordine negativo e inevoluto. Quindi possono esservi anche risvolti familiari e sociali della rivoluzione interiore che, comunque, è sovrapponibile al concetto di Tikkun ha-Olam della Cabala ebraica, cioè la riparazione del mondo consistente nell'eliminazione dello stato di squilibrio e nella restaurazione di una condizione originaria di unione mistica con Dio e di pace. Rivoluzione viene dal latino revolvere: volgere indietro, voltare, ritornare - cioè cambiare il corso delle cose, invertirlo e procedere verso il ripristino dell'armonia originaria. Lo scoraggiamento di Arjuna, dunque, in questa chiave metaforica della Gita (e soltanto in questa, che altrimenti non mi sembrerebbe accoglibile l'incitamento alla violenza) dimostra la sua momentanea incapacità di intravedere lo scopo, il senso ultimo e più profondo della rivoluzione che i Pandava (le forze luminose) vanno a combattere contro i Kaurava (le forze oscure): si tratta di spodestare il predominio dell'egoismo, dell'avidità, della cieca istintualità, dell'ignoranza spirituale, e ripristinare con determinazione la saggezza, il coraggio e la compassione. Arjuna esprime pertanto resistenza e dubbio rispetto alla distruzione di quelli che possiamo chiamare attaccamenti, sicurezze e valori transitori, paventando il cambiamento dello status quo a favore di un percorso nuovo che sul momento non riesce né a vedere né a perseguire.

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