martedì 24 marzo 2009

Bhagavad Gita, Canto II: "Samkhya-Yoga" - lo Yoga dell'Enumerazione







"na jayate mriyate va kadacin/ nayam bhutva bhavita va na bhuyah/
ajo nityah shashvato 'yam purano/ na hanyate hanyamane sharire"
(II, 20)
"Non nasce né muore mai; né avendo esistito cessa di esistere mai più.
Non nato, perpetuo, eterno, antico, non è ucciso quando il corpo è ucciso."
(Traduzione edita dalla Società Teosofica Italiana)



Il primo argomento che Krishna utilizza per incoraggiare Arjuna è quello dell'eternità della vita. Nonostante negli accadimenti che ci riguardano quotidianamente si verifichi ogni sorta di fine, morte, dolore, limitazione, alterazione, disgregazione, cambiamento, perdita, il Maestro afferma che si tratta di una percezione illusoria o, piuttosto, solo parzialmente reale. L'esperienza dell'impermanenza, dice, è superficiale e provvisoria rispetto a quella dell'immutabilità: nella profondità dell'esistenza, sia individuale che cosmica, esiste un nucleo eterno, assoluto, stabile, non soggetto agli accidenti e alle trasformazioni. In effetti la consapevolezza di questo nucleo, la percezione di esso, è un potente rimedio contro la paura, sempre connessa con la transitorietà. Chi ha ricevuto la vita non può evitare la morte; anche chi dovesse vivere molto a lungo, poniamo oltre i fatidici cento anni, alla fine non potrebbe trattenere ancora l'esistenza del corpo, del nome, della forma. A quel punto gli eventi di tutta una vita non saranno che un breve sogno. Eppure nell'uomo c'è anche il sentimento dell'eternità o barlumi di esso. Cos'è più illusorio: l'eterno o il transitorio? Questa è una domanda a cui non si può rispondere definitivamente con l'intelletto; è necessaria la fede. In fondo, e sembra paradossale, ci vuole fede sia per pensare che esista una realtà immutabile, sia per credere che non esista nulla dopo la morte del corpo! Tuttavia c'è anche una forma di fede che non è assertiva, che non è congettura o desiderio che qualcosa sia come vorremmo che fosse, in un senso o nell'altro. E' una fede vuota, come in attesa, che lascia spazio all'esperienza, alla percezione del nuovo, è una porta aperta da varcare, strettamente connessa con la preghiera e la meditazione, che viene narrata e documentata da mistici e da ricercatori di ogni epoca e latitudine. Essa trova certezze che non temono il dubbio.

"sukha-duhkhe same kritva/ labhalabhau jayajayau/
tato yuddhaya yujyasva/ naivam papam avapsyasi"
(II, 38)
"Mettendo a pari piacere e dolore, profitto o perdita, vittoria o sconfitta,
àrmati per la battaglia; in tal modo non avrai peccato."


Prosperità, declino, onore, disonore, lode, biasimo, sofferenza e piacere - questi sono gli alti e bassi della vita. Gli "alti" di solito li consideriamo positivi: prosperità, onore, lode, piacere; i "bassi" sono comunemente visti come negativi: declino, disonore, biasimo, sofferenza. Tendiamo a perseguire gli uni e ad evitare gli altri, per quanto possibile. Però mi sembra che qui si faccia un discorso diverso, perché in realtà dipende da come li si affronta. E' naturale soffrire se c'è una disgrazia e gioire quando accade qualcosa di piacevole, ma in questo non c'è nulla di speciale - si tratta del meccanismo delle cose, della forza della necessità. Invece qui si afferma che le esperienze, le battaglie della vita, sono da considerarsi in sé neutre; non perché il saggio debba sforzarsi di non provare nulla, insensibile agli accadimenti, anestetizzato dalla sua sapienza. Al contrario: egli affronta la battaglia con tutto sé stesso, è attento, sensibile e cosciente, si mette in gioco e in discussione. Se passivamente si lasciasse trascinare dalle circostanze, se lasciasse dipendere da queste il suo stato interiore, oscillerebbe dall'inferno della disperazione all'estasi dell'entusiasmo, ma senza una particolare comprensione. Certo, ci vuole coraggio per affrontare gli eventi accogliendoli, confrontandosi con essi, considerandoli stimoli per una crescita e un cambiamento, rintracciando in essi degli strumenti di riflessione e di auto-conoscenza. Una lode può produrre arroganza in chi la riceve, ma può anche essere un incoraggiamento a migliorare ancora. Una malattia può risultare in mera sofferenza, oppure essere rielaborata per dare un senso più profondo alla vita...

"yavan artha udapane/ sarvatah samplutodake/
tavan sarveshu vedeshu/ brahmanasya vijanatah"
(II, 46)
"Di tanta utilità sono i Veda ad un saggio Brahmana, quanto un pozzo
allorché vi è abbondanza d'acqua da tutte le parti."


Qui Krishna si dimostra molto critico verso un certo tipo di monaci, di sapienti, come dovevano essere i Brahmana (o alcuni di essi) all'epoca della composizione della Gita. Quando i preti e i sacerdoti dichiarano di aver conseguito il risveglio, oppure di avere un particolare contatto con il divino, spesso finiscono con l'esercitare un influsso sociale e acquisire potere sulle coscienze. Perfino quando il loro slancio iniziale possa essere considerato genuino, è comunque facile per gli uomini che godono di una qualche influenza diventare sempre più arroganti e dogmatici, perdere in modestia e umanità, impoverendo la fonte di acqua viva che sta all'origine della loro impostazione filosofico-religiosa. Il Maestro, allora, afferma che le scritture codificate, siano pure dei testi sacri come i Veda, finiscono - specie nella ristretta interpretazione del tipo di sacerdoti anzidetto - con il rappresentare una sovrastruttura che limita o addirittura impedisce la diretta esperienza interiore, altrimenti disponibile per tutti. Tale tipo di conoscenza dogmatica e mediata è, nei confronti della vera conoscenza, come un bicchiere d'acqua rispetto all'oceano, oppure come una fiamma di candela rispetto alla luce solare. Questo non vuol certo dire che Krishna solleciti il disprezzo per certa religiosità rituale. Semplicemente risponde alle domande di Arjuna offrendogli una prospettiva ulteriore, più ampia, in grado di liberarlo dalle incertezze.

"ya nisha sarva-bhutanam/ tasyam jagarti samyami/
yasyam jagrati bhutani/ sa nisha pashyato muneh"
(II, 69)
"Ciò che è notte per tutti gli esseri, tempo di veglia è per l'uomo che ha dominio sopra di sé,
e il tempo di veglia di tutti gli esseri è la notte del savio perspicace."


Questo versetto è in linea con tutte quelle definizioni paradossali che quasi sempre accompagnano i raggiungimenti interiori, forse perché essi sono - per così dire - al di là degli opposti, una loro fusione trascendente. Qui, in particolare, il saggio veglia quando tutti dormono e dorme quando tutti sono svegli. Che cosa significa, forse che è un misantropo, un eccentrico, un asociale? Che è lo spirito della contraddizione, incapace di adattarsi ai normali ritmi biologici? Che può vivere soltanto isolato a causa delle sue acquisizioni spirituali? Per azzardare una interpretazione direi che invece si afferma solamente che egli è in grado di vedere ciò che alla consapevolezza ordinaria è nascosto, invisibile. La notte e il giorno, il sonno e la veglia, sono anche rappresentazioni della morte e della vita - concetti riscontrati già all'inizio di questa riflessione. Saper vedere la caducità in ciò che sembra vitale e l'eternità della vita in ciò che appare come caduco equivale alla percezione di una realtà sottostante le immediate apparenze, ed è prerogativa dell'iniziato. In questo canto della Gita si parla anche di agire senza aspirare al frutto dell'azione, di liberarsi dai desideri, di ritrarsi dai sensi. Mi viene alla mente un passo della "Luce sul sentiero", volumetto molto noto ai ricercatori spirituali di alcuni anni fa, che recita: "Uccidi l'ambizione. Uccidi il desiderio di vivere. Uccidi il desiderio del benessere. Lavora come coloro che sono ambiziosi. Rispetta la vita come coloro che la desiderano. Sii felice come coloro che vivono per la felicità." Non posso credere che il saggio, il santo, l'illuminato o comunque lo si voglia chiamare, debba essere tanto superiore e indifferente da apparire arido, meno sensibile e umano di una qualsiasi persona comune. A mio parere in una sola cosa è diverso: egli sa che la vera felicità non dipende dalle cose e dagli accadimenti, ma sorge spontanea da dentro - da una profonda sintonia con il Tutto. A me non sembra che debba rinunciare sprezzantemente al desiderio, privandosi di ciò che conferisce qualità alla vita e alla relazione fra l'individuo e il suo ambiente. Lo accoglie, invece, comprendendolo in sé stesso e negli altri, apprezzandone la caratteristica divina comunque presente in ogni cosa, ed essendo altresì capace di riconoscerne il giusto posto e valore.

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