martedì 24 marzo 2009

Bhagavad Gita, Canto IV: "Jnana Yoga" - Lo Yoga della Conoscenza


"arjuna uvaca/
aparam bhavato janma/ param janma vivasvatah
katham etad vijaniyam/ tvam adau proktavan iti"
(IV, 4)

"Arjuna disse:
"Recente è la nascita Tua, antica quella di Vivasvat,
come dunque devo intendere che al principio Tu l'hai dichiarata?""

La domanda di Arjuna pone l'accento su una questione rintracciabile in forma analoga anche nel Sutra del Loto, testo orientale di tradizione buddista. Perfino nel Vangelo di Giovanni (I, 30) ve n'è un accenno, allorché il Battista dice di Gesù: "Ecco colui del quale io dissi: dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me." In sostanza viene da chiedersi: come può il Maestro aver istruito un discepolo (o un indefinito numero di discepoli) nato prima di lui, e come può avere impartito l'insegnamento antecedentemente alla sua stessa nascita? Questo interrogativo prelude ad una rivelazione successiva indicante come il Maestro non sia soltanto quale lo si vede o lo si percepisce nella sua forma concreta e attuale, perché quest'ultima è una manifestazione transitoria e contingente di una coscienza sovrapersonale, atemporale, eterna. Che cosa significa? In qualche modo che egli è sempre presente e che non è vincolato ad una forma particolare, essendo la specchiatura e l'espressione del nucleo interiore di ogni essere vivente - del Sé. Un'altra considerazione è che l'insegnamento è anch'esso sempre presente in modo atemporale e aspaziale: basta riconoscerlo, consapevoli che tutto - ogni persona e ogni cosa - può esserne veicolo, in qualsiasi momento o luogo. Inoltre il fatto che un uomo più giovane possa insegnare ad un'antica divinità o agli anziani, la dice lunga sul rinnovamento delle coscienze che i Grandi Maestri sono in grado di apportare: gli anziani sono certamente considerabili depositari di saggezza e conoscenza, ma qui si indica che lo sviluppo della coscienza è ulteriore o indipendente rispetto a queste cose. Krishna è rappresentato nell'iconografia tradizionale come un giovinetto. Egli è il Dio Assoluto ma, diversamente da quanto avviene in occidente - dove sempre Lo si raffigura (simbolicamente) carico di anni, nell'India vaishnava la Sua immagine è eternamente fresca e apportatrice di novità.

"yada yada hi dharmasya/ glanir bhavati bharata
abhyutthanam adharmasya/ tadatmanam srijamy aham"
(IV, 7)

"Ogni qualvolta vi è decadenza nella religione
e ascendenza nell'empietà, Io mi manifesto, o Bharata."

Krishna fa qui riferimento a quello che possiamo identificare come il concetto indiano di Avatara, cioè la discesa e manifestazione del divino eterno, infinito e assoluto in una forma vivente personale soggetta al limite e alla transitorietà. Ciò allo scopo di intervenire nel mondo degli esseri viventi e ripristinare il Dharma (la coscienza della Legge universale) in epoche oscure e malvage. Al di là del significato riguardante ere e civiltà, possiamo riferire il concetto anche a noi stessi e alla nostra vita individuale: nei momenti difficili e oscuri della nostra esperienza, quando si è confusi e smarriti, c'è sempre un aiuto che è possibile cogliere, un'occasione che bisogna saper vedere, un barlume di luce e di comprensione che, perfino nella notte più buia, è il preannuncio di una nuova alba.

"karmany akarma yah pashyed/ akarmani ca karma yah
sa buddhiman manushyesu/ sa yuktah kritsna-karma-krit"
(IV, 18)
"Saggio fra gli uomini e devoto nel compiere ogni azione
è colui che sa vedere l'inazione nell'azione e l'azione nell'inazione"

Questo passo è facilmente accostabile ad un altro grande insegnamento, quello taoista del wu-wei, la non-azione. Personalmente, pur nel rispetto delle differenze comunque esistenti fra le due culture - quella indiana e quella cinese - ritengo effettivamente possibile che esse indichino un unico principio, un'analoga intuizione. E' sempre difficile afferrare completamente il senso dei paradossi simili a questo che accosta azione e inazione: essi unificano due poli opposti nello stesso concetto, e questo fatto è un costante stimolo alla ricerca e ad una rinnovata comprensione - ed è probabilmente lo scopo stesso dell'espressione paradossale quando viene adoperata per definire le intuizioni spirituali. "Agire" significa vivere e partecipare al gioco del mondo, determinando e scegliendo obiettivi e finalità, coinvolgendosi in esso. "Non-agire" può indicare invece (in questo contesto) l'astenersi da tutto ciò, il chiamarsene fuori, nel senso di comprendere che l'azione, in sanscrito "karma", è condizionamento, catena, ciclo senza fine, determinismo, mancanza di libertà. Poiché, però, non si può evitare di agire - essendo anche lo starsene inattivi un'azione implicante la creazione di karma costrittivo (forse anche peggiore) - qual è l'attività effettivamente libera o liberatoria? Qual è l'azione che possa essere la negazione e il superamento di sé stessa? Krishna qui risponde che soltanto il saggio lo sa, letteralmente colui che utilizza la "buddhi", l'intelligenza trascendente. Questi, dedicando il senso della propria esistenza al fine universale dello sviluppo della coscienza del Sé e non al raggiungimento di fini particolaristici (vincolanti e condizionanti), trova un perfetto equilibrio fra serenità interiore e coinvolgimento esteriore, realizzando così il paradosso.

"ajnash cashraddadhanash ca/ samshayatma vinashyati
nayam loko 'sti na paro/ na sukham samshayatmanah"
(IV, 40)

"Ma l'ignorante senza fede che ha l'anima piena di dubbio è perduto;
né questo mondo, né quell'altro, né la felicità sono per colui che ha l'anima piena di dubbio."

Ignoranza (spirituale), mancanza di fede e dubbio: questi sono gli ingredienti velenosi che, al contrario, vincolano l'individuo al meccanismo del karma e ne impediscono la felicità. A ben riflettere, proprio dal dubbio origina tutto il dialogo della Gita fra Arjuna e Krishna. Nel contesto dell'opera il dubbio del condottiero che paralizza la forza è distruttivo. La non-azione di Arjuna, quella che si concretizzerebbe nella sua rinuncia al combattimento, è dovuta ad "ignoranza" spirituale: egli non è in grado di avere una visione chiara della situazione. Può anche darsi che in lui vi sia perfino una mancanza di fede, quanto meno nell'eternità della vita e nella correttezza di una battaglia per la giustizia quale è chiamato a compiere. Tuttavia vorrei sottolineare che è proprio dal dubbio di Arjuna, dalla sua ignoranza e mancanza di fede, che origina la Bhagavad Gita! Com'è possibile, allora, che presupposti negativi possano suscitare un grande insegnamento, che a partire da essi possa esplicitarsi un messaggio luminoso e sapienziale come quello impartito da Krishna? Il fatto è che Arjuna, anche se con l'animo pieno di oscuri sentimenti, compie comunque un grande gesto di forza: li esprime con sincerità al Maestro ponendogli delle domande in proposito. Già in questo c'è la soluzione di tutto: nel fare domande e nell'aprirsi senza preclusioni preconcette ci sono i semi del cambiamento. Quindi non sono tanto il dubbio, l'ignoranza e la mancanza di fede a costituire un problema di per sé: lo sarebbero se rimanessero tali, ma affrontate nella giusta maniera queste cose possono essere invece l'occasione per un salto di livello positivo, per un avanzamento della consapevolezza che, altrimenti, forse non sarebbe possibile.

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