martedì 24 marzo 2009

Bhagavad Gita, Canto XIII: "Kshetra-Keshetrajna Vibhaga Yoga" - lo Yoga del Differenziare fra Campo e Conoscitore del Campo


(riflessioni di Maurizio in poesia)





La via all’esterno e all’altro
mi fa osservare il campo,
l’azione multiforme e varia
dei modi d’esperienza.

La via per l’interno e l’intimo
emozioni e sentimenti esplora,
e i pensieri col conoscere,
i moti di coscienza.

Al centro, proprio in mezzo, là,
il terzo sconosciuto,
di solito imprevisto,
spontaneo e unitario,
non viene da un contrario.

Il campo fa fiorire,
l’osservatore sboccia,
la vita intera schiude:
sofferta dualità pressante
traccia fra soggetto e oggetto
la strada trascendente.

Bhagavad Gita, Canto XII: "Bhakti Yoga" - lo Yoga della Devozione


(riflessioni di Maurizio in poesia)





Fede in che,
a chi, a che cosa devozione e culto?
E’ la domanda mia, non d’altri,
è per il mio cuore,
che da essa non può deviare,
ed è sicura bussola per me,
guida preziosa.

Si prova fedeltà a un’idea,
per un campo d’azione l’affezione
e per la conoscenza ossequio,
per un’autorità venerazione,
dedizione alla concretezza o all’evanescenza,
verso un fine nobile oppure uno sviluppo,
dedicando la vita a questo e quello,
perché il meglio perseguiamo
e ci crediamo.

Ma fede in che,
a chi, a che cosa devozione e culto?
Nella risposta la mia intima certezza
di una flessibile unità,
di una saggia finalità
e di vitale interezza.
Una segreta legge di gioia colma
a cui offro fede e devozione:
è la risposta mia, non d’altri,
è per il mio cuore,
che in essa trova ristoro,
fonte preziosa.

Bhagavad Gita, Canto XI: "Vishvarupa Darshana Yoga" - Lo Yoga del Vedere la Forma Universale


(riflessioni di Maurizio in poesia)




Facile da credere,
facile da comprendere:
fra i monti solenni,
i fiumi e la luce,
nel fuoco e nell’acqua,
fra nuvole e nebbie,
osservando le stelle,
la vita e la morte,
traspare l’Assoluto, Uno, l’Imperituro.

Difficile da credere,
difficile da comprendere:
nelle città dell’uomo,
fra macchine fredde, venefici gas,
la pubblicità ridondante dei potenti,
pur nell’arte e nel pensiero,
con opere maestose e belle,
nei frutti della mano e dell’ingegno,
trapela l’Assoluto, Uno, l’Imperituro.

Impossibile da credere,
impossibile da comprendere:
in me, in te, nell’altro,
nella folla, nel vicino, in tutti noi,
fra degrado e difficoltà,
per quotidiane dure realtà,
fra ciò che rifiutiamo e dov’è impensabile che sia,
nei fatti piccoli e concreti,
dove non è esaltante
e prevale la noia o lo spavento,
è proprio là che si mostra chiaramente
l’Assoluto, Uno, l’Imperituro.

Bhagavad Gita, Canto X: "Vibhuti Yoga" - lo Yoga della Manifestazione Divina



(riflessioni di Maurizio in poesia)





Numerosi pensieri affollati e complessi
impregnati di gioia e tristezza alternate,
anelando una vita verso il meglio orientata
per motivi profondi nel profondo di me.

Poi persone e contatti
fra gli scambi e i contrasti,
con confronti e raffronti dolorosi e intricati
ricercando rapporti da equilibrio ispirati.

Finalmente realizzo ch’è senz’altro evidente:
in un gioco nascosto che si muove a spirale
la mia storia sviluppo sopra un asse centrale,
ma quest’asse, mi chiedo, in sostanza cos’è:

sarà un centro, una legge,
o persona ulteriore
che trascende suprema
la mia vile persona?

“Esso è un nucleo, una cosa
che afferrare non puoi,
che ti sfugge sovente e si mostra più in là,
perché vuole spronarti a esser desto e vivace,
ad accogliere sempre tutto quello che c’è.

Non bloccarti, non stare,
non cercar di fermare
uno slancio che è avanti ogni specie che sai:
tu pulisci lo specchio e continua a invocare
la coscienza vitale che sta dentro di te.”

Bhagavad Gita, Canto IX: "Rajavidya-Rajaguhya Yoga" - lo Yoga della Scienza e del Segreto Regali




(riflessione di Maurizio in poesia)


Mistero nel respiro,
mistero nel battito nel cuore,
nella vita mistero.

Dolce della primavera lo sciogliersi,
esaltante la forza dell'estate,
mesto il riflesso d'autunno,
duro l' inverno scuro,
ma al centro d'ogni istante e ciclo
immutabile il segreto sta.

Né, di fatto, più che il nulla conosciamo:
per paura e per sconcerto,
quando il tutto sembra incerto,
e la vita sfugge ampia fra le maglie del pensiero,
in visioni congelate noi serriamo quel mistero.

Mistero nel respiro,
mistero nel battito del cuore,
ovunque il mistero.

Non è stupore se il segreto ammetto,
e neppure smarrimento:
quell'arcano solamente è la certezza
che pervade la mia vita e le dà forza:
è a quel pozzo sì profondo
che io attingo nuova luce,
la saggezza del confronto
che nel mondo mi conduce,
l'accortezza per un'etica più salda,
una scienza più sensibile ad ognuno,
l'apertura verso gli altri
e verso l'Uno.

Bhagavad Gita, Canto VIII: "Akshara-Parabrahman Yoga" - lo Yoga dell'Assoluto Imperituro


(riflessione di Maurizio in poesia)

La teoria degli eventi scorre lenta
estenuante per gl'innumeri conflitti
scivolando in quotidiana assenza.

E la morte pare vera,
come tutto ciò che sfugge
e la dolorosa crisi dell'essere.

Dov'è la felicità, quale?
Il sentire si scioglie e svanisce
sotto il peso duro della fine
sgretolato dal limite imperante.

Ma di nuovo e già da sempre
impensata soluzione appare:
fra le mani stringo forte
ogni grano del presente,
e riscopro l'Assoluto
reimmergendomi nel flusso
che la vita mi propone;
rifulgente come il sole,
come luna riposante,
che dà il senso ad ogni istante.

La teoria degli eventi scorre viva
vibrante per gl'infiniti significati
ritrovata la quotidiana pienezza.

Bhagavad Gita, Canto VII: "Jñana-Vijñana Yoga" - Lo Yoga della Conoscenza-Coscienza


"bhumir apo 'nalo vayuh/ kham mano buddhir eva ca/
ahankara itiyam me/ bhinna prakritir ashtadha/
apareyam itas tv anyam/ prakritim viddhi me param/
jiva-bhutam maha-baho/ yayedam dharyate jagat" (VII - 4,5)
"Terra, acqua, fuoco, aria, etere, intelligenza, ragione, coscienza - così è la Mia natura ottuplicemente divisa.
Questa è la [Mia natura] inferiore; sappi che havvi in Me un'altra natura più alta che è il principio di vita dal quale, o Mâhabâhu, questo universo è mantenuto."


(i versi sono tratta dalla B.G. a cura della Società Teosofica Italiana)

Poiché il titolo di questo Canto indica la conoscenza realizzatrice delle cose, mi sembra opportuno indagare su alcuni termini utilizzati da Krishna e sui concetti esplicitamente ed implicitamente correlati, almeno per quello che io ne capisco. I cinque elementi (in sanscr.: pancabhuta) sono i costituenti basilari del mondo manifesto, non solo di quello fisico - come si potrebbe pensare - ma anche dei mondi sottili, essendo archetipi primordiali che sottostanno ad ogni aspetto fenomenico. Ad essi sono connessi i sensi (indryas): l'odorato alla terra, il gusto all'acqua, la vista al fuoco, il tatto all'aria e l'udito all'etere. Oltre ai pancabhuta vi sono tre componenti della coscienza (citta) che formano il cosiddetto antahkarana (organo di percezione interno): essi sono manas, buddhi e ahamkâra. "Manas" è la mente come coordinatrice della percezione sensoriale e della conseguente elaborazione in sentimenti, pensieri, immagini, eccetera. "Buddhi" è l'intelligenza superiore, discriminante e intuitiva, attraverso la quale si esprime l'individualità - intesa come nucleo di consapevolezza spirituale. In una famosa similitudine presente nella Katha Upanishad, la buddhi è rappresentata come il guidatore del carro, il manas come le redini che collegano questi agli elementi sensoriali-cavalli, mentre il veicolo è il corpo. L'"Ahamkâra", infine, è il senso dell'io che si autopercepisce come soggetto dell'esperienza separato da tutto ciò che è non-io.
Tuttavia questo Canto VII, come pure molte altre parti della Gita, segnala ripetutamente l'esistenza di un livello più profondo della consapevolezza, solitamente indicato nella terminologia indiana come l'Atma, che può essere assimilato al Sé - l'Io divino e universale e, in definitiva, allo stesso Krishna. Mentre nell'uomo l'io personalistico è contraddistinto da sentimenti, pensieri e desideri egoistici, il Sé potrebbe definirsi come uno stato di consapevolezza che partecipa all'interezza della vita ed è identificabile con la sua totalità, universalità e trascendenza. Si potrebbe anche dire che lo sforzo di chi è impegnato nella ricerca interiore sia quello di aprire, espandere o dissolvere i limiti del suo piccolo io - riconoscendone l'illusorietà sul piano ontologico - per riuscire a manifestare il Grande Io, il Sé. La difficoltà nel trascendere le istanze dell'io è ben riconoscibile nella società contemporanea, dove la spinta consumistica - anche indotta artificialmente da coloro cui conviene - alimenta costantemente i desideri istintivi, l'avidità e la dipendenza; dove la discriminazione contrappone in maniera esasperata le differenze fra le persone fino a giustificare odio e violenza; dove c'è una devastante mancanza di sensibilità e di rispetto verso le altre forme di vita o la vita naturale del pianeta in genere. Credo che la ricerca del Sé - oltre alle esperienze mistiche che certamente può offrire - debba potersi manifestare concretamente in scelte e azioni quotidiane sempre più incentrate sui valori ideali e umani, come anche sul senso di responsabilità e sul desiderio di contribuire al benessere altrui e all'armonia dell'ambiente nel quale tutti viviamo. Non si tratta tanto di reprimere coercitivamente l'io egoistico e le sue istanze, quanto di indirizzarle trasformando gradualmente il proprio modo di vivere e di pensare nella direzione di un sentire più ampio e altruistico, più incentrato sull'essere che sull'avere, più basato su valori universali che sulla soddisfazione degli istinti immediati; tutto ciò sostenuto e alimentato - naturalmente - dalla costante introspezione e dall'instancabile dedizione della propria vita al Sé.

"yesham tv anta-gatam papam/ jananam punya-karmanam/
te dvandva-moha-nirmukta/ bhajante mam dridha-vratah" (VII, 28)
"Ma gli uomini che agiscono meritoriamente e il cui peccato è giunto a termine, liberi dall'illusione dei contrari, costanti nei voti loro, Mi adorano."

Bhagavad Gita, Canto VI: "Dhyana Yoga" - lo Yoga della Meditazione


"yogi yunjita satatam/ atmanam rahasi sthitah
ekaki yata-cittatma/ nirashir aparigrahah" (VI, 10)
"L' Yogi ritirandosi solo in luogo appartato, dominando la mente ed il cuore, libero dalla speranza e dall'idea di possessione, si dedichi incessantemente alla meditazione."

"sarva-bhuta-sthitam yo mam/ bhajaty ekatvam astitah
sarvatha vartamano 'pi/ sa yogi mayi vartate" (VI, 31)
"Quell'Yogi che mi adora (scorgendo la Mia presenza) in ogni creatura e riconoscendo l'unità di tutte le cose, vive in Me, qualunque sia la maniera del viver suo."



(la traduzione dei versetti è tratta dall'edizione della B.G. a cura della Società Teosofica Italiana.)

Questo canto, come si può riscontrare nel titolo, è incentrato sulla meditazione, di cui viene fornita una esposizione sostanziale e tecnica in linea con i tradizionali insegnamenti dello Ashtanga Yoga. Per intenderci parliamo dello Yoga classico codificato da Patanjali, nel quale possono ben rientrare le indicazioni del luogo pulito e appartato, dell'isolamento, la spina dorsale diritta, lo sguardo fisso in Nasagrai Drishti (sulla punta del naso), la mente concentrata sul Sé. Esistono in questa disciplina nove punti principali verso i quali focalizzare lo sguardo, e ognuno di questi ha un significato profondo, che potrebbe essere brevemente schematizzato come segue:

Urdhva Drishti - verso l'alto, visione ulteriore
Broomadhya Drishti - fra le sopracciglia, visione unificante
Nasagrai Drishti - punta del naso, visione del ciclo vitale
Nabhi Drishti - ombelico, visione stabilizzante
Hastagrai Drishti - mano, visione compassionevole
Angusta Ma Dyai Drishti - pollice, visione nobilitante
Parsva Drishti - orizzonte destro, e
Parsva Drishti - orizzonte sinistro, visione polarizzata
Padayoragrai Drishti - alluce, visione della duttilità

In particolare Nasagrai è in relazione con l'organo della respirazione dove si incontrano Ida e Pingala, le correnti energetiche lunari e solari che trasportano Prana e Apana, che fondono inspirazione ed espirazione e controllano perciò anabolismo e catabolismo. Naturalmente, oltre al significato fisiologico, possiamo intravedere quello dell'equilibrio fra creazione e distruzione all'interno della consapevolezza, per così dire fra Brahma e Shiva, incentrando l'attenzione su Vishnu - lo stabilizzatore, di cui Krishna stesso è un Avatara; o viceversa, secondo le correnti religiose krishnaite, su Vishnu come manifestazione di Krishna - l'Assoluto. C'è, comunque, un altro aspetto divino che è particolarmente importante e a cui questo canto fa un esplicito riferimento, quello Paramatma: si tratta della scintilla divina presente in ogni creatura vivente e dovunque. Per chi percorre un cammino introspettivo è estremamente necessaria la percezione non teorica ma reale del Paramatma, anche allo scopo di temperare lo slancio "verticale" ed evitare, secondo quanto ho argomentato nel commento al precedente canto, la possibile "inflazione dell'io". In altre parole, sentire la divinità in ogni cosa, in ogni situazione, in ogni essere vivente, in ogni persona, fa che non si fondi il proprio percorso spirituale sulla divisione e sul senso di separatività, che invece sono elementi caratteristici del piccolo io individualista. Yogi Bhajan, il Maestro di Yoga con il quale ho fatto esperienza di questa disciplina, diceva con un simpatico gioco di parole in inglese "If you don't see God in all, you don't see God at all", ben traducibile in italiano con: "Se non vedi Dio in tutto, non vedi Dio del tutto".

Bhagavad Gita, Canto V: "Karma-Samnyasa-Yoga" - lo Yoga della Rinuncia nell'Azione


"yogayuko vishuddhatma/ vijitatma jitendriyah
sarvabhutatmabhutatma/ kurvann api na lipyate" (V, 7)
"Colui che è dedito alla devozione, che è puro di mente, che domina la propria natura, che domina i sensi, che identifica il suo sé con quello di tutte le creature, quantunque agisca non è contaminato."


"shaknoti ‘hai ‘va yah sodhum/ prak shariravimokshanat
kamakrodhodbhavam vegam/ sa yuktah sa sukhi narah" (V, 23)

"Colui che anche in questo mondo, prima di essere liberato dal corpo, è capace di sopportare il tumulto che nasce dal desiderio e dall'ira, è un uomo devoto, è un uomo felice."

(la traduzione dei versetti è tratta dalla B.G. edita dalla Società Teosofica Italiana)


Il concetto, già anticipato nei precedenti canti e trattato più diffusamente in questo che ne porta il titolo, è quello della rinuncia. In sostanza mi pare che si tratti di questo: poiché l'azione - intesa anche come desiderio e coinvolgimento nelle cose di questo mondo - è vincolante, è karma, allora la via per la liberazione è la rinuncia all'azione, al desiderio, eccetera. E' possibile, viene però detto da Krishna, anche agire facendo il proprio dovere (quanto meno quello di esseri viventi con le caratteristiche di movimento e relazione) e tuttavia non essere contaminati dal mondo. Ciò può essere ottenuto attraverso la devozione: agire senza desiderare di agire, senza intenzione egoistica, senza mirare al frutto dell'azione, bensì fare ciò che deve essere fatto per dovere devozionale e sacrificio, non per sé stessi ma come tributo all'Essere Universale, a Dio. Ciò equivarrebbe nei risultati alla rinuncia ascetica, e costituirebbe il superamento dell'ego, dell'io personale, che verrebbe mortificato - per così dire - e annullato in favore dell'Io Totale. Tuttavia viene da chiedersi - e non per mera speculazione intellettuale o per indulgere in sofismi, ma proprio con serietà: chi è che decide di agire senza aspirare al frutto dell'azione? Non è forse sempre l'io? Agire con lo scopo di non contaminarsi e di liberarsi dall'io non è pur sempre un desiderare il frutto dell'azione, sia pure il frutto più nobile? Arrivare ad annullare l'io egoico per servire l'Io universale, dunque, potrebbe non essere niente altro che la più alta ambizione dell'io, che si figura la massima autoliberazione e il massimo raggiungimento nella dissoluzione di sé stesso al servizio del Supremo fra i Sovrani o nell'identificazione in Lui. Oppure bisognerebbe asserire che non è l'io a fare l'azione/non-azione, bensì qualcosa nell'uomo che è al di là dell'io, che ne è libero. Se così fosse, però, lo scopo dell'annullamento dell'io sarebbe già raggiunto nel momento in cui quel qualcosa, sopravanzando l'io, fosse in grado di manifestarsi. Intendo dire che fare esercizio della non-azione è comunque un processo dell'io - perché tendente ad uno scopo e sostenuto da un desiderio (sia pure abilmente mascherato da non-scopo e non-desiderio). L'azione realmente originata da una coscienza al di là dell'io, invece, non può per definizione essere esercitata per raggiungere un fine, sia pure spirituale, ma sarebbe tale qual è in sé, senza motivo e senza programmazione alcuna, espressione di un'intima natura. Secondo quanto argomentato è inutile che l'io tenti di annullare l'io, perché lo farebbe sempre a partire da sé stesso e desiderando di raggiungere un risultato, fosse anche il dissolvimento di sé: oltre al ritenersi - per ambizione inconsapevole e inflazione egoica - sempre più santo, illuminato o incontaminato, non potrebbe raggiungere molto altro. Una cosa, però, potrebbe utilmente farla: accettare sé stesso in quanto "io", come una manifestazione della vita, dotata per lo meno di una parziale realtà, consapevole di essere una persona comune, come gli altri, senza doversi necessariamente da loro distanziare, neanche con il giudizio, ma accogliendo la propria umanità e - di conseguenza - quella altrui. L'io può fare molte altre cose alla sua portata: conoscersi nei suoi limiti, indagare le sue vere motivazioni, sforzarsi di agire - per quanto possibile - per il bene comune oltre che per il proprio, se non altro perché il bene di tutti comprende anche il suo (facendo l'io parte dei "tutti"), sforzarsi di ammorbidire l'eccessiva chiusura egoistica perché essa apporta cecità e sofferenza - pur rispettando le proprie necessità, quelle degli altri esseri viventi e dell'ambiente in cui sta. Se poi questo lavorìo, questo macerarsi nell'auto-osservazione e nella trasmutazione dei propri lati negativi, possa portare all'acquietamento e al silenzio dell'io, alla sua resa, e allo spontaneo manifestarsi di un'azione senza scopo egoico, ben venga. Ma tutto ciò, secondo logica, non può essere progettato, desiderato e perseguito dall'io. E chissà che non sia proprio ciò che Krishna vuole indicare nella Gita quando parla di azione devozionale e di offerta al Sé...

Bhagavad Gita, Canto IV: "Jnana Yoga" - Lo Yoga della Conoscenza


"arjuna uvaca/
aparam bhavato janma/ param janma vivasvatah
katham etad vijaniyam/ tvam adau proktavan iti"
(IV, 4)

"Arjuna disse:
"Recente è la nascita Tua, antica quella di Vivasvat,
come dunque devo intendere che al principio Tu l'hai dichiarata?""

La domanda di Arjuna pone l'accento su una questione rintracciabile in forma analoga anche nel Sutra del Loto, testo orientale di tradizione buddista. Perfino nel Vangelo di Giovanni (I, 30) ve n'è un accenno, allorché il Battista dice di Gesù: "Ecco colui del quale io dissi: dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me." In sostanza viene da chiedersi: come può il Maestro aver istruito un discepolo (o un indefinito numero di discepoli) nato prima di lui, e come può avere impartito l'insegnamento antecedentemente alla sua stessa nascita? Questo interrogativo prelude ad una rivelazione successiva indicante come il Maestro non sia soltanto quale lo si vede o lo si percepisce nella sua forma concreta e attuale, perché quest'ultima è una manifestazione transitoria e contingente di una coscienza sovrapersonale, atemporale, eterna. Che cosa significa? In qualche modo che egli è sempre presente e che non è vincolato ad una forma particolare, essendo la specchiatura e l'espressione del nucleo interiore di ogni essere vivente - del Sé. Un'altra considerazione è che l'insegnamento è anch'esso sempre presente in modo atemporale e aspaziale: basta riconoscerlo, consapevoli che tutto - ogni persona e ogni cosa - può esserne veicolo, in qualsiasi momento o luogo. Inoltre il fatto che un uomo più giovane possa insegnare ad un'antica divinità o agli anziani, la dice lunga sul rinnovamento delle coscienze che i Grandi Maestri sono in grado di apportare: gli anziani sono certamente considerabili depositari di saggezza e conoscenza, ma qui si indica che lo sviluppo della coscienza è ulteriore o indipendente rispetto a queste cose. Krishna è rappresentato nell'iconografia tradizionale come un giovinetto. Egli è il Dio Assoluto ma, diversamente da quanto avviene in occidente - dove sempre Lo si raffigura (simbolicamente) carico di anni, nell'India vaishnava la Sua immagine è eternamente fresca e apportatrice di novità.

"yada yada hi dharmasya/ glanir bhavati bharata
abhyutthanam adharmasya/ tadatmanam srijamy aham"
(IV, 7)

"Ogni qualvolta vi è decadenza nella religione
e ascendenza nell'empietà, Io mi manifesto, o Bharata."

Krishna fa qui riferimento a quello che possiamo identificare come il concetto indiano di Avatara, cioè la discesa e manifestazione del divino eterno, infinito e assoluto in una forma vivente personale soggetta al limite e alla transitorietà. Ciò allo scopo di intervenire nel mondo degli esseri viventi e ripristinare il Dharma (la coscienza della Legge universale) in epoche oscure e malvage. Al di là del significato riguardante ere e civiltà, possiamo riferire il concetto anche a noi stessi e alla nostra vita individuale: nei momenti difficili e oscuri della nostra esperienza, quando si è confusi e smarriti, c'è sempre un aiuto che è possibile cogliere, un'occasione che bisogna saper vedere, un barlume di luce e di comprensione che, perfino nella notte più buia, è il preannuncio di una nuova alba.

"karmany akarma yah pashyed/ akarmani ca karma yah
sa buddhiman manushyesu/ sa yuktah kritsna-karma-krit"
(IV, 18)
"Saggio fra gli uomini e devoto nel compiere ogni azione
è colui che sa vedere l'inazione nell'azione e l'azione nell'inazione"

Questo passo è facilmente accostabile ad un altro grande insegnamento, quello taoista del wu-wei, la non-azione. Personalmente, pur nel rispetto delle differenze comunque esistenti fra le due culture - quella indiana e quella cinese - ritengo effettivamente possibile che esse indichino un unico principio, un'analoga intuizione. E' sempre difficile afferrare completamente il senso dei paradossi simili a questo che accosta azione e inazione: essi unificano due poli opposti nello stesso concetto, e questo fatto è un costante stimolo alla ricerca e ad una rinnovata comprensione - ed è probabilmente lo scopo stesso dell'espressione paradossale quando viene adoperata per definire le intuizioni spirituali. "Agire" significa vivere e partecipare al gioco del mondo, determinando e scegliendo obiettivi e finalità, coinvolgendosi in esso. "Non-agire" può indicare invece (in questo contesto) l'astenersi da tutto ciò, il chiamarsene fuori, nel senso di comprendere che l'azione, in sanscrito "karma", è condizionamento, catena, ciclo senza fine, determinismo, mancanza di libertà. Poiché, però, non si può evitare di agire - essendo anche lo starsene inattivi un'azione implicante la creazione di karma costrittivo (forse anche peggiore) - qual è l'attività effettivamente libera o liberatoria? Qual è l'azione che possa essere la negazione e il superamento di sé stessa? Krishna qui risponde che soltanto il saggio lo sa, letteralmente colui che utilizza la "buddhi", l'intelligenza trascendente. Questi, dedicando il senso della propria esistenza al fine universale dello sviluppo della coscienza del Sé e non al raggiungimento di fini particolaristici (vincolanti e condizionanti), trova un perfetto equilibrio fra serenità interiore e coinvolgimento esteriore, realizzando così il paradosso.

"ajnash cashraddadhanash ca/ samshayatma vinashyati
nayam loko 'sti na paro/ na sukham samshayatmanah"
(IV, 40)

"Ma l'ignorante senza fede che ha l'anima piena di dubbio è perduto;
né questo mondo, né quell'altro, né la felicità sono per colui che ha l'anima piena di dubbio."

Ignoranza (spirituale), mancanza di fede e dubbio: questi sono gli ingredienti velenosi che, al contrario, vincolano l'individuo al meccanismo del karma e ne impediscono la felicità. A ben riflettere, proprio dal dubbio origina tutto il dialogo della Gita fra Arjuna e Krishna. Nel contesto dell'opera il dubbio del condottiero che paralizza la forza è distruttivo. La non-azione di Arjuna, quella che si concretizzerebbe nella sua rinuncia al combattimento, è dovuta ad "ignoranza" spirituale: egli non è in grado di avere una visione chiara della situazione. Può anche darsi che in lui vi sia perfino una mancanza di fede, quanto meno nell'eternità della vita e nella correttezza di una battaglia per la giustizia quale è chiamato a compiere. Tuttavia vorrei sottolineare che è proprio dal dubbio di Arjuna, dalla sua ignoranza e mancanza di fede, che origina la Bhagavad Gita! Com'è possibile, allora, che presupposti negativi possano suscitare un grande insegnamento, che a partire da essi possa esplicitarsi un messaggio luminoso e sapienziale come quello impartito da Krishna? Il fatto è che Arjuna, anche se con l'animo pieno di oscuri sentimenti, compie comunque un grande gesto di forza: li esprime con sincerità al Maestro ponendogli delle domande in proposito. Già in questo c'è la soluzione di tutto: nel fare domande e nell'aprirsi senza preclusioni preconcette ci sono i semi del cambiamento. Quindi non sono tanto il dubbio, l'ignoranza e la mancanza di fede a costituire un problema di per sé: lo sarebbero se rimanessero tali, ma affrontate nella giusta maniera queste cose possono essere invece l'occasione per un salto di livello positivo, per un avanzamento della consapevolezza che, altrimenti, forse non sarebbe possibile.

Bhagavad Gita, Canto III: "Karma Yoga" - lo Yoga dell'Azione


"karmendriyani samyamya/ ya aste manasa smaran/
indriyarthan vimudhatma/ mithyacarah sa ucyate" (III, 6)
"Quell'uomo illuso che, frenando gli organi dell'azione, continua a pensare agli oggetti dei sensi, è chiamato un ipocrita."


Da questo versetto si comprende il punto di vista rivoluzionario della Bhagavad Gita rispetto al brahmanesimo e allo Yoga quale era inteso all'epoca della composizione dell'opera. Lo scopo delle discipline ascetiche dell'India era il raggiungimento dell'Eterno attraverso, per così dire, lo spegnimento e l'estinzione di ogni attività. Il mondo, insomma, è limitato e limitante, le catene del karma sono pesantissime e il ciclo di nascita e morte è una sorta di prigionia per il Jivatma, l'anima individuale. Quindi l'unica soluzione è non partecipare al mondo e alle sue attività, spostando la propria consapevolezza altrove, nell'Illimitato, chiudendo i sensi e le loro percezioni illusorie. Questa dunque sarebbe la Liberazione. Krishna dice che no, che non è così: sopprimere i sensi è impossibile, e chi dice di farlo è un ipocrita. L'universo è strutturato in un certo modo, e non vale rifiutarlo, cercare di chiudersi ad esso nascondendo la testa sotto la sabbia. Perfino il divino, per quanto si voglia considerarlo - secondo certa concezione - come un Sovrano Assoluto e Trascendente, è soggetto alla Sua stessa Legge e agisce nell'universo, che in qualche modo è il suo stesso corpo. Perciò è inutile astenersi dal coinvolgimento nell'azione e dalla percezione sensoriale, semplicemente perché è impossibile e contrario alla Vita. Quello che bisogna fare, suggerisce in questo Canto Krishna, è accettare sé stessi e affermare la propria disposizione ad esistere e agire, senza arroganti e ascetici rifiuti ma offrendo devozionalmente la propria esperienza al Principio Divino presente nella profondità della vita e nel proprio cuore.

"tasmad asaktah satatam/ karyam karma samacara/
asakto hy acaran karma/ param apnoti purushah" (III, 19)

"Perciò fa sempre ciò che dev'essere fatto, ma senza attaccamento, poiché l'uomo che compie un'azione disinteressatamente consegue il Supremo."


Esistono, quindi, due tipi di azione: quella di chi, come si diceva prima, è prigioniero delle catene del Samsara, cioè degli alti e bassi delle evenienze e delle circostanze relative soltanto al proprio "piccolo io", e quella di chi invece - pur continuando a partecipare del mondo "materiale" - ne è libero interiormente, perchè consapevole anche del versante "spirituale" delle cose, del loro "senso", del "Grande Sé" cosmico che tutto comprende, cioè della dignità sia della propria vita che di quella altrui, come anche di quella universale. Quanto più l'azione è motivata da una visione ampia, non circoscritta al proprio solo ambito personale ma aperta, tanto più essa è disinteressata, felice e libera da attaccamenti. Questa, afferma Krishna, è la vera Liberazione.

"shreyan sva-dharmo vigunah/ para-dharmat sv-anushthitat/
sva-dharme nidhanam shreyah/ para-dharmo bhayavahah"(III, 35)

"Meglio il proprio dovere benché imperfettamente compiuto che il dovere di un altro bene eseguito. La morte nel compiere il proprio dovere è preferibile; il dovere di un altro è pieno di perigli."


La consapevolezza del versante spirituale, però, non significa seguire pedissequamente dei principi di comportamento uniformi, validi per tutti nello stesso modo e definitivamente. Non si è mai esentati, infatti, dalla continua riflessione sul senso della propria azione e dalla costante autoanalisi e conoscenza. Non vale eseguire bene i dettami di un modello impostoci dall'esterno e non condiviso profondamente, oppure auto-impostoci rigidamente. Sarebbe pericoloso per la vitalità della propria coscienza. Poiché la vita è azione e mutamento, trasformazione - e questo non può essere rifiutato - altrettanto bisogna essere in grado di modificare flessibilmente la propria linea di comportamento secondo gli eventi, non nel senso opportunistico, ma verificando la saldezza delle proprie convinzioni con la capacità di mettersi sempre in discussione. Magari sperimentando e sbagliando, ma accettando di poter cambiare, correggere il tiro e crescere positivamente nell'assecondare la propria natura profonda.

Bhagavad Gita, Canto II: "Samkhya-Yoga" - lo Yoga dell'Enumerazione







"na jayate mriyate va kadacin/ nayam bhutva bhavita va na bhuyah/
ajo nityah shashvato 'yam purano/ na hanyate hanyamane sharire"
(II, 20)
"Non nasce né muore mai; né avendo esistito cessa di esistere mai più.
Non nato, perpetuo, eterno, antico, non è ucciso quando il corpo è ucciso."
(Traduzione edita dalla Società Teosofica Italiana)



Il primo argomento che Krishna utilizza per incoraggiare Arjuna è quello dell'eternità della vita. Nonostante negli accadimenti che ci riguardano quotidianamente si verifichi ogni sorta di fine, morte, dolore, limitazione, alterazione, disgregazione, cambiamento, perdita, il Maestro afferma che si tratta di una percezione illusoria o, piuttosto, solo parzialmente reale. L'esperienza dell'impermanenza, dice, è superficiale e provvisoria rispetto a quella dell'immutabilità: nella profondità dell'esistenza, sia individuale che cosmica, esiste un nucleo eterno, assoluto, stabile, non soggetto agli accidenti e alle trasformazioni. In effetti la consapevolezza di questo nucleo, la percezione di esso, è un potente rimedio contro la paura, sempre connessa con la transitorietà. Chi ha ricevuto la vita non può evitare la morte; anche chi dovesse vivere molto a lungo, poniamo oltre i fatidici cento anni, alla fine non potrebbe trattenere ancora l'esistenza del corpo, del nome, della forma. A quel punto gli eventi di tutta una vita non saranno che un breve sogno. Eppure nell'uomo c'è anche il sentimento dell'eternità o barlumi di esso. Cos'è più illusorio: l'eterno o il transitorio? Questa è una domanda a cui non si può rispondere definitivamente con l'intelletto; è necessaria la fede. In fondo, e sembra paradossale, ci vuole fede sia per pensare che esista una realtà immutabile, sia per credere che non esista nulla dopo la morte del corpo! Tuttavia c'è anche una forma di fede che non è assertiva, che non è congettura o desiderio che qualcosa sia come vorremmo che fosse, in un senso o nell'altro. E' una fede vuota, come in attesa, che lascia spazio all'esperienza, alla percezione del nuovo, è una porta aperta da varcare, strettamente connessa con la preghiera e la meditazione, che viene narrata e documentata da mistici e da ricercatori di ogni epoca e latitudine. Essa trova certezze che non temono il dubbio.

"sukha-duhkhe same kritva/ labhalabhau jayajayau/
tato yuddhaya yujyasva/ naivam papam avapsyasi"
(II, 38)
"Mettendo a pari piacere e dolore, profitto o perdita, vittoria o sconfitta,
àrmati per la battaglia; in tal modo non avrai peccato."


Prosperità, declino, onore, disonore, lode, biasimo, sofferenza e piacere - questi sono gli alti e bassi della vita. Gli "alti" di solito li consideriamo positivi: prosperità, onore, lode, piacere; i "bassi" sono comunemente visti come negativi: declino, disonore, biasimo, sofferenza. Tendiamo a perseguire gli uni e ad evitare gli altri, per quanto possibile. Però mi sembra che qui si faccia un discorso diverso, perché in realtà dipende da come li si affronta. E' naturale soffrire se c'è una disgrazia e gioire quando accade qualcosa di piacevole, ma in questo non c'è nulla di speciale - si tratta del meccanismo delle cose, della forza della necessità. Invece qui si afferma che le esperienze, le battaglie della vita, sono da considerarsi in sé neutre; non perché il saggio debba sforzarsi di non provare nulla, insensibile agli accadimenti, anestetizzato dalla sua sapienza. Al contrario: egli affronta la battaglia con tutto sé stesso, è attento, sensibile e cosciente, si mette in gioco e in discussione. Se passivamente si lasciasse trascinare dalle circostanze, se lasciasse dipendere da queste il suo stato interiore, oscillerebbe dall'inferno della disperazione all'estasi dell'entusiasmo, ma senza una particolare comprensione. Certo, ci vuole coraggio per affrontare gli eventi accogliendoli, confrontandosi con essi, considerandoli stimoli per una crescita e un cambiamento, rintracciando in essi degli strumenti di riflessione e di auto-conoscenza. Una lode può produrre arroganza in chi la riceve, ma può anche essere un incoraggiamento a migliorare ancora. Una malattia può risultare in mera sofferenza, oppure essere rielaborata per dare un senso più profondo alla vita...

"yavan artha udapane/ sarvatah samplutodake/
tavan sarveshu vedeshu/ brahmanasya vijanatah"
(II, 46)
"Di tanta utilità sono i Veda ad un saggio Brahmana, quanto un pozzo
allorché vi è abbondanza d'acqua da tutte le parti."


Qui Krishna si dimostra molto critico verso un certo tipo di monaci, di sapienti, come dovevano essere i Brahmana (o alcuni di essi) all'epoca della composizione della Gita. Quando i preti e i sacerdoti dichiarano di aver conseguito il risveglio, oppure di avere un particolare contatto con il divino, spesso finiscono con l'esercitare un influsso sociale e acquisire potere sulle coscienze. Perfino quando il loro slancio iniziale possa essere considerato genuino, è comunque facile per gli uomini che godono di una qualche influenza diventare sempre più arroganti e dogmatici, perdere in modestia e umanità, impoverendo la fonte di acqua viva che sta all'origine della loro impostazione filosofico-religiosa. Il Maestro, allora, afferma che le scritture codificate, siano pure dei testi sacri come i Veda, finiscono - specie nella ristretta interpretazione del tipo di sacerdoti anzidetto - con il rappresentare una sovrastruttura che limita o addirittura impedisce la diretta esperienza interiore, altrimenti disponibile per tutti. Tale tipo di conoscenza dogmatica e mediata è, nei confronti della vera conoscenza, come un bicchiere d'acqua rispetto all'oceano, oppure come una fiamma di candela rispetto alla luce solare. Questo non vuol certo dire che Krishna solleciti il disprezzo per certa religiosità rituale. Semplicemente risponde alle domande di Arjuna offrendogli una prospettiva ulteriore, più ampia, in grado di liberarlo dalle incertezze.

"ya nisha sarva-bhutanam/ tasyam jagarti samyami/
yasyam jagrati bhutani/ sa nisha pashyato muneh"
(II, 69)
"Ciò che è notte per tutti gli esseri, tempo di veglia è per l'uomo che ha dominio sopra di sé,
e il tempo di veglia di tutti gli esseri è la notte del savio perspicace."


Questo versetto è in linea con tutte quelle definizioni paradossali che quasi sempre accompagnano i raggiungimenti interiori, forse perché essi sono - per così dire - al di là degli opposti, una loro fusione trascendente. Qui, in particolare, il saggio veglia quando tutti dormono e dorme quando tutti sono svegli. Che cosa significa, forse che è un misantropo, un eccentrico, un asociale? Che è lo spirito della contraddizione, incapace di adattarsi ai normali ritmi biologici? Che può vivere soltanto isolato a causa delle sue acquisizioni spirituali? Per azzardare una interpretazione direi che invece si afferma solamente che egli è in grado di vedere ciò che alla consapevolezza ordinaria è nascosto, invisibile. La notte e il giorno, il sonno e la veglia, sono anche rappresentazioni della morte e della vita - concetti riscontrati già all'inizio di questa riflessione. Saper vedere la caducità in ciò che sembra vitale e l'eternità della vita in ciò che appare come caduco equivale alla percezione di una realtà sottostante le immediate apparenze, ed è prerogativa dell'iniziato. In questo canto della Gita si parla anche di agire senza aspirare al frutto dell'azione, di liberarsi dai desideri, di ritrarsi dai sensi. Mi viene alla mente un passo della "Luce sul sentiero", volumetto molto noto ai ricercatori spirituali di alcuni anni fa, che recita: "Uccidi l'ambizione. Uccidi il desiderio di vivere. Uccidi il desiderio del benessere. Lavora come coloro che sono ambiziosi. Rispetta la vita come coloro che la desiderano. Sii felice come coloro che vivono per la felicità." Non posso credere che il saggio, il santo, l'illuminato o comunque lo si voglia chiamare, debba essere tanto superiore e indifferente da apparire arido, meno sensibile e umano di una qualsiasi persona comune. A mio parere in una sola cosa è diverso: egli sa che la vera felicità non dipende dalle cose e dagli accadimenti, ma sorge spontanea da dentro - da una profonda sintonia con il Tutto. A me non sembra che debba rinunciare sprezzantemente al desiderio, privandosi di ciò che conferisce qualità alla vita e alla relazione fra l'individuo e il suo ambiente. Lo accoglie, invece, comprendendolo in sé stesso e negli altri, apprezzandone la caratteristica divina comunque presente in ogni cosa, ed essendo altresì capace di riconoscerne il giusto posto e valore.

Bhagavad Gita, Canto I: "Arjuna Vishada Yoga" - Lo Yoga dell'angoscia di Arjuna


A partire da questo, riporto qui alcuni miei lavori sulla Bhagavad Gita, uno dei più importanti testi dell'induismo - una sorta di Vangelo dell'India. Preciso che non fornirò spiegazioni sulla struttura, il racconto, lo scopo e la storia di questo testo, per le quali cose rimando ai molti interessanti libri, articoli o altro specializzati sull'argomento. Entro, quindi, subito nell'opera senza preliminari di nessun tipo, traendo direttamente da essa spunto e temi di riflessione personale. Ciò anche nello spirito del dialogo e dello scambio con quella grande religione che è l'induismo.

"kulakshaye pranashyanti/ kuladarmah sanatanah/
dharme nashte kulam kritsnam/ adharmo ‘bhibhavaty uta" (I, 40)

"Con la rovina delle famiglie/ vanno disperse le osservanze eterne,/
e col perir di queste in tutta la famiglia/ prevale l'empietà."
(Traduzione edita dalla Società Teosofica Italiana)


Il versetto qui citato esprime il principale motivo dello smarrimento di Arjuna, argomento del primo capitolo della Gita: come si può muovere guerra ad amici e parenti (e in senso lato ad altri esseri umani), anche se usurpatori, distruggendo in tal modo le fondamenta della struttura familiare e sociale? A ben vedere, ogni guerra del passato, e forse anche del presente, è stata e viene combattuta da ognuno dei contendenti pensando di avere Dio dalla propria parte; purtroppo la stessa cosa può valere per qualsivoglia folle o terrorista che compia uno sconsiderato atto di violenza! Per tali motivi direi che il dubbio di Arjuna sembra estremamente giustificato: come possiamo voler imporre le nostre ragioni a tutti i costi, con terribili armi di morte e distruzione? E' per questo che la risposta di Krishna risulta sorprendente - ed è il tema dei successivi capitoli della Gita: Arjuna, dirà il Maestro, deve portare avanti il suo dovere di Kshatriya, cioè deve combattere. Questo è ancora più sconcertante se consideriamo che il Mahatma Gandhi, l'apostolo della non-violenza, traeva proprio dalla Bhagavad Gita sostegno e ispirazione. Di quale guerra allora parliamo? E come si può, in ambito filosofico-religioso, incitare alla battaglia e al massacro? Certo, qualora ci trovassimo personalmente in una situazione di pericolo, oggetto di violenza da parte di malintenzionati, accoglieremmo con estremo sollievo l'intervento di difensori armati - ad esempio delle forze di polizia; quindi credo che sia sempre importante non generalizzare troppo e valutare ogni situazione con la necessaria discriminazione. Tuttavia, pur con le opportune riserve, mi sembra che un incitamento alla guerra sia improponibile come messaggio religioso. Al fine, quindi, di poter prendere in considerazione la Bhagavad Gita come testo sapienziale, devo per forza assumere che la guerra, la battaglia, abbiano in esso il senso metaforico e mitologico di lotta contro i limiti, vizi e le difficoltà - cioè contro il male e le forze oscure, e devo riconoscere al senso letterale soltanto un valore provvisorio e facilmente equivocabile. Detto ciò vorrei però notare la somiglianza di quanto espresso nella Gita con le parole di Gesù: "Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa'' (Mt. 10, 34-36). Queste parole dure ed enigmatiche, così come quelle di Krishna, incitano indubbiamente ad una rivoluzione interiore, ma anche esteriore, nonostante gli aspetti distruttivi di quest'ultima. Probabilmente perché la rivoluzione di cui si parla, anche qui, significa metaforicamente eliminazione delle negatività e sviluppo della coscienza individuale; ma in tale sviluppo non si può prescindere dalla liberazione dalle cristallizzazioni di gruppo, dalle autorità malsane e dalle opinioni collettive, e quindi dall'eliminazione di un eventuale ordine negativo e inevoluto. Quindi possono esservi anche risvolti familiari e sociali della rivoluzione interiore che, comunque, è sovrapponibile al concetto di Tikkun ha-Olam della Cabala ebraica, cioè la riparazione del mondo consistente nell'eliminazione dello stato di squilibrio e nella restaurazione di una condizione originaria di unione mistica con Dio e di pace. Rivoluzione viene dal latino revolvere: volgere indietro, voltare, ritornare - cioè cambiare il corso delle cose, invertirlo e procedere verso il ripristino dell'armonia originaria. Lo scoraggiamento di Arjuna, dunque, in questa chiave metaforica della Gita (e soltanto in questa, che altrimenti non mi sembrerebbe accoglibile l'incitamento alla violenza) dimostra la sua momentanea incapacità di intravedere lo scopo, il senso ultimo e più profondo della rivoluzione che i Pandava (le forze luminose) vanno a combattere contro i Kaurava (le forze oscure): si tratta di spodestare il predominio dell'egoismo, dell'avidità, della cieca istintualità, dell'ignoranza spirituale, e ripristinare con determinazione la saggezza, il coraggio e la compassione. Arjuna esprime pertanto resistenza e dubbio rispetto alla distruzione di quelli che possiamo chiamare attaccamenti, sicurezze e valori transitori, paventando il cambiamento dello status quo a favore di un percorso nuovo che sul momento non riesce né a vedere né a perseguire.